Messaggio della settimana di Don Giuseppe

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

II Domenica di Pasqua                                         27 Aprile 2025

 

La lezione dell’incredulità di Tommaso

 

         “Non essere incredulo, ma credente” dice il Risorto a Tommaso, e il suo cammino è quello di chi esce dall’incredulità per accedere alla fede piena. Tommaso non dubita di ciò che i discepoli gli annunciano, ma pone una condizione per credere: “Se non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo”. Senza l’incontro con il Risorto si rifiuta di credere. L’incredulità iniziale di Tommaso non è il sarcasmo beffardo di chi non ha intenzione di credere, al contrario è un’incredulità interamente orientata verso la fede. Incredulità che dice qualcosa di assolutamente essenziale sulla fede: nessuno può credere per noi, al nostro posto. La fede implica un “io”, perché la fede è un atto personale: “Io credo”.

            Per questo, nell’incredulità di Tommaso si manifesta l’essenza della fede: credere non può semplicemente significare affidarsi alla parola di un altro, nemmeno di un apostolo di Gesù Cristo. Contro l’argomento dell’autorità, contro la catena della testimonianza, Tommaso protesta ed esige un’esperienza personale, chiede l’incontro con il Risorto. “Abbiamo visto il Signore”, gli dicono gli Undici, ed è come se Tommaso rispondesse: “Se non vedo il Signore come l’avete visto voi, non crederò. La fede nella risurrezione di Cristo non la posso attingere dalla vostra fede”.

            Questa è la grande lezione dell’incredulità di Tommaso: l’uomo ha il diritto di rifiutarsi di credere in assenza di esperienza personale, ha il diritto di rifiutarsi di sottoporsi anche a una testimonianza unanime. Non si crede solo perché tutti credono. Ciascuno di noi ha il diritto di invocare il Risorto per sé, respingendo anche coloro che affermano di parlare a suo nome. Questa è fede contro il clericalismo, questa è fede distinta dalla semplice trasmissione culturale, questa è fede come esperienza interiore, personale e quindi irriducibile a qualsiasi istituzione.

            Questa incredulità comporta un rischio: che Cristo non si manifesti, che Tommaso non veda mai il segno dei chiodi, che la sua esistenza sia svuotata di Dio.

 

L’incredulità di Tommaso ci pone sull’orlo dell’abisso e ci conduce lì da soli. Di fronte alla pentecoste collettiva dei dieci apostoli, Tommaso ci immerge in una solitudine interiore. Paradosso della fede la cui soglia è l’incredulità, un’incredulità assunta in un “io non credo”.

            Questa incredulità è solo la soglia, il nartece della fede: bisogna attraversarlo per uscirne. È la notte della fede, un’insonnia tormentata dall’attesa del giorno. Per Tommaso furono otto giorni, per altri mesi, per altri anni e per alcuni quasi una vita.

            “Tendi la tua mano e mettila nel mio fianco”, dice il Cristo a Tommaso, “e non essere incredulo, ma credente! Gli rispose Tommaso: Mio Signore e mio Dio!”. Tommaso confessa molto di più del ritorno in vita del suo maestro. C’è qui un salto di qualità, una frattura tra ciò che Tommaso osserva e ciò che confessa, tra ciò che vede e ciò che crede. Esclama “Mio Signore e mio Dio!” dopo aver toccato un corpo segnato dalle ferite. Non è per nulla scontato dire davanti a questo corpo trafitto “mio Dio”, perché questo corpo trafitto è l’opposto della divinità. C’è un salto, ed è il salto della fede. Tommaso scopre l’identità profonda di Gesù, scopre Dio in Gesù Risorto. Non solo “il Dio vivente e vero”, ma il suo Dio.

           

 

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